Io adoro l’accostamento tra pane e croccante. Anche se, da buon genovese, dovrei piuttosto usare il termine focaccia fragrante. Quella con i buchetti stracolmi di olio, dove la pasta sembra quasi cruda. Salata sì, ma non troppo. Sottile e morbida e croccante sui bordi. A Genova si trova ancora in tantissimi posti. Non sono bastati grande distribuzione e catene a farne perdere l’assoluta dipendenza ai miei (ex-)concittadini.

Per me il pane è quello della Rosa

La Rosa era una signora piccola piccola e dolce come poche. Lei al banco, suo marito al forno. Le due figlie ad aiutarle nel piccolo panificio a Teglia, il quartiere popolare di Genova in cui sono cresciuto. Era un pane così buono, che ne arrivava a casa solo metà: nonna lo sbocconcellava lungo il tragitto. La focaccia, poi, era così straordinaria da farmi guarire dall’influenza. Sull’insegna c’era scritto PANIFICIO LARI. Tutto maiuscolo e con le due parole così attaccate tra loro da sembrare un unico sostantivo. Così ho vagato con lo sguardo nella mia vita da bambino tra le insegne di tutte le panetterie, domandandomi perché loro non si chiamassero panificiolari.

La sera, se ti capitava di fare la spesa prima di chiudere, Rosa ti riempiva di pizzette, grissini e di tutto quello che avrebbe reso più ricca la tavola, invece di essere buttato nella rumenta. Il suo sguardo dolce e la voce sussurrata erano carezze che rendevano quel pane così buono, ancora più buono.
Rosa non c’è più e il panificio ha chiuso. Non c’è, però, nessuna ricetta che possa cancellare la bontà di quella focaccia e della persona che la serviva con tanto amore.

Poi è arrivata la Luisa

Quando mi sono trasferito a Monza, in piazza Indipendenza, avevo trovato un nuovo panificio. Quello di Luisa e Gianni. Lui sempre infarinato e accaldatissimo dalle temperature del retrobottega. Lei, sorriso gigante, timbro forte, capelli portati come la mia zia Fernanda e, soprattutto, l’uso quasi esclusivo del dialetto milanese. “Ciao Massimiliano! Ciao bello!” mi urlava vedendomi dall’altro lato della strada, la porta del negozio sempre aperta da gennaio a dicembre.

Consapevole che la focaccia non l’avrei presa e di pane non ne mangiavo, maledetta dieta perenne. Tuttalpiù un Estathè in bicchierino, che in bottiglia non mi piace mica. Però stavo da lei ore a chiacchierare, tra una cliente e l’altra, un pödi minga e un uh signur. Anche lei ha avuto una fine sfortunata e troppo anticipata. Il profumo del suo sorriso, però, è impresso in me come se fossi uscito stamattina dalla sua bottega.

Il pane vero è tutta un’altra storia.

Ogni supermercato lo “produce” in loco. Croccante fuori e morbido dentro, quando è appena fatto. E poi pronto a diventare 100% puro legno dopo poche ore. Il profumo? Quanto basta. Cioè poco. Non lo si sente da lontano, non rimane impresso.

Sembra pane quello in cassetta che dura almeno 30 giorni. Sembra pane il crostino industriale su cui spalmiamo il philadelphia. Sembra pane quello che racchiude gli hamburger e ha i semini di sesamo al fast food. Ma ne siamo sicuri sicuri?

Il pane vero è quello che fa a gara con la farcitura a chi è più buono. È quello che come lo spalmi lo spalmi: è comunque delizioso. È quello che se lo lasci lì 24 ore è ancora buono.

Il pane vero è quello che ti ricordi di aver mangiato.

#millegioie – cercare il pane buono

Ogni volta che entriamo a comprare il pane da un panificio vero, facciamo la differenza. Diffondiamo profumo e bontà. Ricordi futuri e racconti di oggi.

Nessun dubbio sulla comodità del pane precotto, congelato e rinvenuto dall’ipermercato. E non sarò io a rinnegarne la qualità. Però la poesia, sì. 

Mi piacerebbe mappare i panifici buonissimi, quelli da non perdere quando si visita una città. Quelli che ricorderemo per sempre e che non possiamo permetterci di lasciar chiudere. Che se li consigli agli amici, ti ringrazieranno a vita.

Quelli che parlano di noi anche senza conoscerci ancora.